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Lunedì, 01 Giugno 2020 16:50

L’«invenzione della Fassona», una storia firmata Oberto

 

 La prima macelleria della famiglia Oberto fu aperta da mio padre Pietro, nel 1965, ad Alba.


 

Erano anni duri, di grandissimo fermento. Chi nasceva in campagna in una famiglia contadina, come mio padre, sognava di mettersi in proprio. L’alternativa era passare la vita da furìc (che in piemontese significa «bracciante, tuttofare») o come mezzadro, senza mai possedere nulla, se non la fatica.

Così, a 14 anni, Pietro lasciò la casa paterna e, dopo anni da garzone di bottega, riuscì ad aprire la sua Macelleria, “Da Piero”. Ci investì tutti i soldi che aveva guadagnato, ma non erano abbastanza: fu grazie a un prestito che la banca gli volle accordare che riuscì a coronare il suo sogno.

La fiducia che ottenne dal territorio, fu la stessa che volle restituire con il suo lavoro. La nostra macelleria ha sempre e solo avuto una filosofia: servire la qualità, ai clienti così come ai ristoranti, che pian piano, dopo la crisi del dopoguerra, cominciavano a riproporre la carne (soprattutto quella cruda) nei loro menù.

Tra i clienti di mio padre ci fu la famiglia Morra, i discendenti di quel Giacomo che, per primo, aveva capito che il nostro territorio avrebbe potuto distinguersi per l’enogastronomia, potendo contare su materie prime di qualità assoluta, uniche al mondo, prime fra tutte il suo amato Tartufo Bianco d’Alba, che lui trasformò nel “diamante delle terra”.

Giacomo Morra capì che solo offrendo l’eccellenza si poteva essere riconosciuti come “eccellenti”: a lui si deve la nascita della ristorazione di livello nelle Langhe, ovvero quella cucina che ancora oggi riesce a valorizzare ed esaltare il Tartufo Bianco d’Alba e tutti i generosi frutti del nostro territorio. 

Un esemplare adulto di Fassona

Fatte le dovute proporzioni, le intuizioni di Giacomo sono state d’ispirazione per quelle di Oberto. Quando negli anni ’80 ho affiancato mio padre in macelleria, nella mia testa ha cominciato ad affacciarsi un’idea: se le Langhe possedevano un terroir distintivo per vini, tartufi e nocciole, perché non ricercare quest’ unicità anche nella carne? Possedevano già una razza d’eccezione, il Fassone di Razza piemontese, ma nulla era stato fatto per promuoverlo fuori da un contesto locale. Inoltre, per tradizione, la carne di Fassone veniva macellata da vitelli giovani di 18 mesi circa, non ancora del tutto sviluppati. L’uso in cucina era sostanzialmente a crudo: un carne di colore rosa, magrissima, perfetta per la tartare, la carne all’albese o carpaccio. Ma quando si trattava di griglia, forno o brace, ecco che altri tipi di carne la surclassavano, e di molto. I ristoranti conoscevano di fatto la Chianina, l’Angus, la Limousine, il maiale iberico (solo per citarne le carni più famose), ma il Fassone non rientrava nel loro menù

Uno dei miei primi compiti è stato quello di farmi ambasciatore di questa carne fra i grandi ristoranti, prima in Piemonte, poi nel Nord Italia, infine in tutta la Penisola e, negli ultimi anni, anche all’estero (à leggi il nostro post sulla carne Fassona a Londra).

Perché la carne piemontese “gareggiasse” con le altre, però, era necessario portarla in territori inesplorati, ovvero sottoporla a tecniche e selezioni che nessuno, all’epoca, avrebbe osato condurre. È così che acqua la FASSONA OBERTO, quella con la «A» finale. Nel retrobottega, cominciai a macellare bovini più longevi, che superavano cioè i 36 mesi di età. In questo modo, le loro carni erano più compiute, più mature, anche più equilibrate nelle percentuali di muscolo e grasso. Non solo. Mi accorsi che le femmine longeve davano risultati ancora migliori: la loro carne era più succosa, di grande persistenza, dal gusto meno ferroso. Infine, sperimentai anche sulla frollatura, una tecnica che ancora oggi è poco utilizzata in Italia ed è simile all’affinamento del vino. Le carni di femmina di almeno 36 mesi venivano fatte leggermente “disidratare” in locali temo-condizionati, ventilati, sotto un costante controllo di ph e umidità. Una scelta che fu criticata da molti, addirittura osteggiata da alcuni.

Dry Aging, ovvero la frollatura

Ma la Fassona di femmina longeva, attentamente frollata, diede i suoi frutti. La feci assaggiare a cuochi e chef, anche di alto livello, e tutti erano concordi: finalmente la carne piemontese riusciva ad esprimersi anche in cotture più complesse, non solo a crudo, svelando una tipicità ed una espressività che poteva dirsi, a tutto tondo, territoriale, ovvero unica perché allevata, nutrita e macellata sulle colline delle Langhe.

Oggi, il successo della Fassona è tale che moltissimi hanno cominciato a chiamarla così: Fassona, con la A finale. Una carne di terroir: colore rosso acceso, magra e succosa, a basso contenuto di colesterolo, dal gusto armonico e sapido, adatta a ogni tipo di cottura e, soprattutto, splendidamente abbinabile con i vini delle nostre Langhe.

Daniele Oberto


 

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